testi
I due testi che seguono sono stati scritti da due amici, Stefano Bartezzaghi e Luigi Serafini, in occasione della mia prima mostra personale alla Galleria L'Affiche, a Milano, nel giugno 2007.
Riceverli e leggerli è stata una gioia.
CHI SA, SPARIGLIA di Stefano Bartezzaghi
Vorrei anch’io saper aprire e chiudere le scatole. Vorrei anch’io saper fare un gioco in cui convivano elementi incongrui. Mi piacerebbe trovare un ordine, seguire gli impulsi di una logica che si può conoscere solo attraverso i suoi esiti, aprire contenitori e fare spazio a un bricolage che non si preoccupa di rivestire alcuna funzione. E poi costruire nicchie, distribuire oggetti, confezionare etichette e numeri d’ordine, diagnosticare la bipolarità di una formica, collezionare insulti in cui prevalga la parola “schifo”, percorrere strade che si perdono in un bosco.
A differenza di Chiara Passigli io dispongo solo di parole. E’ vero, però, che anche le parole sono scatole, e contengono nicchie dette caselle, dove disponiamo le loro lettere. Chiara è una scatola di sei caselle. Passigli è una scatola di otto caselle. Prima di vedere le sue scatole-di-cose non avevo idee del perché, disponendo le caselle del suo nome in un diverso modo, avevo trovato una scatola-di-parole in cui si legge: i sacrali spaghi. Eccoli lì, invece, i fili disposti secondo percorsi fatali, e forse fatati.
Ho arredato una scatola dove si vede Chiara lavorare nella sua stanza: lapis, righi, casa.
Ho coltivato una scatola dove delicati elementi naturali sono messi (nei due significati della parola messi) a repentaglio: la spiga rischia.
Ho fotografato una scatola dove si vede la mano farsi guidare dall’occhio: prassi ha ciglia.
Ho scritto, a carattere di scatola, un avviso sull’ironia equilibrata che muove le intenzioni dell’artista: pirla chi si gasa!
Ho allestito una scatola per i suoi viaggi: Parigi: là, chissà...
Ho pensato a una scatola per le sue sapienti strategie: chi sa, spariglia.
Ho messo in una scatola certi suoi trasparenti pseudonimi...: saprei chi sigla
... e ho rivelato in un box la soluzione del riddle: Graphic is Alias.
Alla fine mi sono rimaste due scatole avventurose che ambienterei fra certe scheletriche vegetazioni, le uniche che erano visibili a uno scrittore che non si muoveva mai di casa, ma stando in quella casa si figurava foreste lussureggianti: chi spia Salgari / ha passi gracili.
Ecco tutto quello a cui servono le mie scatole: a spiare uno scrittore sedentario, lievemente depresso e allucinato, e a seguirlo con passi stentati.
Ben altre avventure toccheranno al fortunato viandante che spierà nelle scatole di Chiara Passigli le arrischiate spighe e gli spaghi sacrali, i loro alias grafici, i loro enigmi visibili e i loro invisibili segreti.
IN PRINCIPIO ERA LA SCATOLA… di Luigi Serafini
C’era una volta una Scatola… Once upon a time, there was a Box…
Prima di affrontare l’Escatologia del lavoro di Chiara Passigli, non posso non riferire dell’antica cosmogonia degli Oscanici (Mongolia settentrionale), secondo cui il Demiurgo aveva costruito sotto la yurta cosmica un mobile in legno della steppa sul tipo dei nostri settimini, con sette cassetti che contenevano i sette incantesimi della Creazione…
in uno tutte le stelle, i fulmini e le rugiade, in un altro tutti gli uccelli e le loro uova, in un altro ancora tutti i vulcani, insieme a giade topazi e ori, in un altro i fiumi, le mandrie di mucche e di cavalli, e poi farfalle insieme a cervi e grano maturo, e ancora attrezzi agricoli, selle e archi con frecce, e nell’ultimo cassetto donne uomini e bambini insieme a tappeti e a fuochi accesi per il pranzo.
Non sappiamo con esattezza, ma forse anche Jahvè si era servito di un settimino (ovviamente cosmico). Cos’è il beth di bereschit se non il disegno di un cassetto, cioè di una scatola? L’ ebraico infatti si scrive da destra verso sinistra e il beth è rivolto verso il seguito del testo che sembra sprigionarsi fuori da esso, appunto come da un cassetto strapieno.
E allora ci viene da pensare che tutto sia cominciato con una messa in ordine del caos dentro a una Scatola, e noi che fummo creati a immagine e somiglianza continuiamo quotidianamente a imitare quel gesto divino quando mettiamo a posto il comò, l’armadio, o il pensile della cucina.
Alcuni anni fa, ormai molti, conobbi Adriano Mei Gentilucci a Roma, proprio dietro l’angolo. Frequentavamo la libreria di Paolo Tarantelli, che non è più con noi, e che aveva quella rara dote di fare da tramite, di catalizzare eventi. In fondo se oggi sono qui a scrivere queste righe è un po’ per merito suo.
Venticinque anni dopo, una sera, mi ritrovai a Milano nella Galleria di Adriano, l’Affiche. Stavamo guardando i lavori degli artisti quando il mio sguardo cadde su una scatola di plexi trasparente che conteneva una specie di piccola foresta portatile fatta di rami diversi e disposti verticalmente come piccoli tronchi d’albero e le creature che lo popolavano ritagliate in lievi e piccole sagome di carta colorata. C’era in quella scatola tutta la magia del bosco con le sue paurose zone d’ombra, il canto degli uccelli nascosti, il fruscio del riccio solitario, l’odore dei muschi e il lampeggiare delle amanite. Chiesi informazione sull’artista e Adriano mi parlò di una giovane che lavorava di tanto in tanto, come se entrasse e uscisse dalla casa dell’Arte per una porticina laterale.
Un anno dopo ricevetti una telefonata da un amico che avevo poco prima incontrato alla Fiera del Libro di Parigi. – Ciao, Luigi… sono Alvise... ma lo sai che hai acquistato un’opera di mia figlia Chiara? - La gioia dall’accento fiorentino che Alvise mi comunicava, (lui non lo non sapeva e ora lo sa - n.d.L.) non era inferiore alla mia che mi sentivo liberato da quel gravame che le relazioni sociali portano con sé nella richiesta “vorrei farti vedere.., che ne pensi di.., puoi dare un’occhiata a…” ecc. Insomma niente di tutto questo: per una semplice questione di fortuna e affinità avevo incontrato un artista al suo stato germinale e ne ero subito divenuto collezionista.
Cara Chiara, questa mostra è importante come lo sono i riti di passaggio. E’ una delle tante soglie che misteriosamente siamo costretti a varcare ogni volta che entriamo in una nuova stanza della Casa della Vita. In questa cerimonia mi è capitato un ruolo che in passato fu di altri nei mie confronti. E è quello della benedizione e dell’augurio.
Ti auguro quindi di continuare a costruire quelle piccole cosmogonie solenni e portatili che mi avevano così affascinato e che sicuramente entreranno in tante case a creare angoli aurei di riflessione e/o meditazione, così come si addice alle manifestazioni generose dell’Arte.
Luigi Serafini, 22 maggio 2007